Chi non ha mai sognato di tornare indietro nel tempo per vivere l’atmosfera misteriosa del medioevo?

Castell’arquato


Chi di noi non vorrebbe avere la macchina del tempo per poter, anche solo per un giorno, camminare per le strade di un borgo medievale intatto, entrare in un castello, sentirsi completamente immerso in un’altra epoca storica, un’ epoca che rievoca racconti fantastici, tornei, amor cortese, cavalieri e dame?. Se almeno una volta nella vita l’hai sognato, se per un giorno vuoi dimenticare la modernità, il luogo più adatto per realizzare questo desiderio è Castell’arquato. Siamo in provincia di Piacenza, all’inizio della val d’Arda, lì dove l’Appennino rompe la monotonia della pianura padana, separando quest’ultima dalle coste liguri. Il monumento più rappresentativo di Castell’arquato è la rocca viscontea, eretta tra il 1342 e il 1349 (gli anni della grande peste). Nel 1466 entra nel patrimonio degli Sforza, che la detengono fino al 1707 quando viene inglobata nel ducato di Parma e Piacenza. Sovrasta l’intero complesso il mastio di 42 metri di altezza. Al suo interno si trova il museo multimediale della vita medievale. Altri luoghi di interesse sono la collegiata di santa Maria, il palazzo del podestà, costellato di suggestivi merli a coda di rondine, e il palazzo ducale. Una curiosità : a Castell’arquato nel 1985 vennero girate delle scene del film” Ladyhawke”, ambientato proprio nel medioevo. Castell’arquato vi stupirà davvero, più di quanto si possa descrivere a parole…
E.C.



Castell’arquato


Castell’arquato


Dana. Tratto dal libro di Letizia Turrà – Lacrime di legno

Lacrime di legno – di Letizia Turrà


Tornai a casa. Ad accogliermi trovai la penombra stanca di un pomeriggio sciatto e irriverente, grigio come mai era stato nel mese di maggio.

Poggiai le chiavi sul tavolo, il cui tonfo mi fece quasi innervosire.

Respirai l’aria oberata dall’olezzo della spazzatura che avevo dimenticato di buttare.

Poi mi recai in soggiorno, e mi gettai come uno zombie sul divano. Mi voltai in direzione della libreria e presi di peso il tomo di cinquecento pagine che mi aveva regalato Martin.

Lo aprii senza troppe pretese di carpirne il significato.

Per me non contava la profondità di quelle parole, era una distrazione dilaniante e frivola quella di cui avevo bisogno.

Lo aprii a pagina sette.

“Oblio, libri, custodi…” iniziai a pronunciare ad alta voce alcune tra le parole che la mia mente riuscì a catturare.



Continuai: “Pagine, segreto, dimenticati…” e nel frattempo infilai la mano destra nei pantaloni raggiungendo velocemente le mutandine. “Nessuna, sottobraccio, rifiutato, capolavoro, dita, prenderla…emulare” tutte parole che pronunciavo a caso e sempre più a stento, ansimando, immersa in un mondo di piacere nel quale mi trovai avviluppata, impantanata come nelle sabbie mobili. Stimolai la clitoride fino a sentire l’umidità trasalire alla base delle dita.



Continuai ancora, e ancora: “Dio, versetti, Vangelo, padre…” tirai un sospiro forte e venni, leggendo quelle ultime parole.

Poi mi fermai guardando fissa la parola “padre”, fino a quando mi bagnai completamente e cacciai un urlo di sfogo, teso a liberarmi da quella possessione.

Strofinai le dita prima di tirarle fuori dai pantaloni, le portai verso il naso e constatai che avevano un odore aspro, simile a una prugna acerba.



Il liquido fuoriuscito era leggermente viscoso, come la polpa delle bacche. Mi ricordò gli alberi che aveva Martin in giardino, a casa di suo zio.

La corteccia del liquidambar è lucida e spessa, quasi liscia al contatto con la mano quando l’albero è ancora molto piccolo.

Man mano che la sua crescita avanza, la corteccia muta in una superficie marrone scuro, si squama come la pelle di una triglia, e si dilata al punto da lasciare che piccoli pezzi di tegumento finiscano per adagiarsi sul terreno.

Ero un liquidambar.

Ero un albero possente ma sfigurato, dentro e fuori, perché la mia anima era più vecchia di quel che si poteva intuire, guardandomi.



Forse avrei dovuto scrivere racconti, di quelli d’amore. Ma come si scrive dell’amore, senza rischiare poi di avere voglia di cancellare tutte le parole scritte in precedenza?

Soffrivo di un amore incosciente che riempiva la mia bocca, le mie braccia, le mie natiche e persino il mio sesso.

Soffrivo per un sentimento che non conoscevo, ma del quale sapevo di non potere fare a meno.

Dal Blog di Letizia Turrà

Lacrime di legno, Letizia Turrà

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Oggi vi presentiamo Vitorchiano !!



A pochi chilometri da Viterbo, capoluogo della Tuscia, si erge su una rupe di roccia tufacea, il borgo medievale di Vitorchiano alle pendici dei monti cimini.
Il piazzale Umberto I cattura l’attenzione per la presenza dell’unica statua Moai al mondo al di fuori dell’isola di Pasqua, qui posata nel 1990 da un gruppo di indigeni provenienti dall’isola di Rapa Nui.
Accompagnati dallo sguardo del Moai accediamo attraversando Porta Romana, unico ingresso, al borgo medievale. Da qui ci perdiamo in un labirinto di vicoli e piazzette sulle quali si affacciano abitazioni con i caratteristici proferli, scalette esterne che portano ad un balcone dal quale si accede all’ abitazione.
Maestosa è la torre con l’orologio del palazzo comunale che domina la piazzetta sottostante, cuore del borgo.
Vitorchiano è nominata “terra fedele all’urbe” ossia fedele a Roma, per via della liberazione Romana dal dominio di Viterbo nel 1267. Ancora oggi il simbolo cittadino si fregia della sigla S.P.Q.R.
Ed è proprio nella giornata odierna, 8 Maggio, che si festeggia il santo patrono di S.Michele.
A.C.




Per il progetto #lartenonsiarrende oggi ROMINA MONTELEONE di seguito le sue parole a proposito del suo vissuto della pandemia

Romina Monteleone


Per esorcizzare la paura ho fatto un lungo bagno di emozioni ed è lì che proprio le emozioni hanno ricominciato a fluire suggerendo alla mano cosa fare. Così è nata la mia opera dedicata alla pandemia da Covid-19 “Resta a casa”. Un dittico che racconta alcuni frammenti della realtà vissuta nel mondo in questo triste periodo. L’isolamento, la morte, il sacrificio del personale medico, la disperazione, la stanchezza, la compassione, il desiderio di ritrovarsi sani e salvi. L’esecuzione di quest’opera è stata per me una forma liberatoria che mi ha permesso di aprirmi e di vivere più serenamente la situazione. L’arte, anche in questo caso, è risultata essere per me terapeutica e nello stesso tempo strumento espressivo, un perfetto binomio che è semplicemente Amore.



Romina Monteleone

di Emanuela Scanu Psicologa



Leggi l’articolo sul blog di Emanuela Scanu Psicologa.



Mario Bova e il realismo dell’anima.

Mario Bova, In segreto, Carbothello su Pastelmat, 90 x 70 cm


Sono emozioni che vivono tramite sguardi e gesti, sono attimi della vita che l’artista “cattura” e traspone nelle sue opere donando una nuova vita agli attimi fuggenti dell’esistenza umana.
Ci sorprende l’artista Mario Bova con la rappresentazione reale dei volti delle persone, portatori di emozioni e sentimenti che l’artista plasma nelle sue raffigurazioni.
Nell’opera “In segreto”, vediamo un bambino che, nel buio della notte, legge silenziosamente un libro.
L’uso del Carbothello su Pastelmat rafforza la raffigurazione della realtà.
L’artista riesce a rendere la luce in maniera del tutto fotografica, una luce che supporta la raffigurazione concretizzando quel senso di segretezza che l’artista intende conferire all’opera.
Soffermandoci sul volto notiamo lo studio accurato delle espressioni e la resa eccellente, supportata dalla luce protagonista della raffigurazione. Una luce resa alla perfezione, che riverbera mediante il bianco delle pagine e delle lenzuola, l’artista ne fa un uso sapiente mescolandola alle ombre.
Una composizione armonica e realistica, lo scatto fotografico che ruba un frammento di realtà.

di Elisabetta La Rosa