” Questa seconda edizione della mostra Luci nel Buio, allestita nella Chiesa di Santa Maria Maddalena, si pone sulla scia della prima edizione con l’intento di incoraggiare i valori spirituali propri dell’arte figurativa. Non una mostra di arte sacra rivolta al culto e alle esigenze della liturgia, ma una mostra di orizzonti umanistici, dove la spiritualità si manifesta come capacità di dialogo, innanzitutto interiore, e poi, di riflesso, collettivo. Spiritualità che non si astrae dal mondo, ma lo abita e ne percorre i sentieri assurdi e caotici calandosi nello smarrimento, nel dubbio, nello sgomento esistenziale. Spiritualità come macerazione interiore, e dunque come cr-isi, come fermento da cui si genera ogni cr-escita e sgorga ogni genuino atto cr-eativo.
Questo è il cr-edo degli artisti (ed è curioso notare come tutti questi termini hanno una radice verbale comune). Un credo, quello degli artisti, che non proietta la testa tra le nuvole, ma che piuttosto conduce il cielo sulla terra, trasformando i sogni in opere concrete. Volano alto, gli artisti, ma non come Icaro, le cui ali di cera si sciolgono al sole lasciandolo precipitare al suolo. Gli artisti, i poeti, volano restando con i piedi ben radicati al suolo. Per questo sono anime in pena. Anime in cr-isi appunto, vaganti nel buio, trafitte da raggi di sole. Coltivano alti ideali, gli artisti, al prezzo di sconfitte amarissime e sanguinanti ferite. Incanti e disincanti fusi tra di loro. Un magma incandescente, agli antipodi di quell’odierna palude culturale di cui a sproposito si dice che sia cultura della crisi.
Crisi è scuotimento, turbamento: nulla a che vedere con il minimalismo e lo squallore della cosiddetta società liquida (per dirla con Bauman); con il conformismo standardizzato, robotizzato e scialbo degli odierni paradisi artificiali. Crisi è dinamismo, è fuoco sacro, dinamite, carica spirituale. Crisi sono i sobbalzi dell’intelligenza creativa, non certo il quieto vivere dell’intelligenza artificiale. Stiamo attraversando una fase assai delicata della nostra storia e il rischio che corriamo è di uscire di scena. La posta in gioco è altissima, ma la vera sfida non è con le macchine, è con noi stessi. Non si tratta di disfarsi della tecnologia, o di rinunciare al benessere materiale, ma certamente, se non riusciremo a stare all’altezza morale del progresso raggiunto, non ci sarà via di scampo: dovremo capitolare.
Ciò che veramente conta è sviluppare i valori spirituali e l’arte può molto aiutare in tal senso, perché l’artista è allenato a vivere in originale, anziché in fotocopia, e la singolarità da lui coltivata è ciò che veramente occorre per contenere l’omologazione e l’aggressione tecnologica. Ovviamente si può anche lavorare in équipe, non è questo il problema. Ciò che conta è non rinunciare alla propria personalità finendo per considerarsi dei numeri. La collaborazione, l’aggregazione sono valori positivi, purché non si finisca per portare il cervello all’ammasso mortificando le identità individuali e le coscienze singole. E’ anche utile ricordare che la parola latina ars corrisponde alla parola greca techne e ciò immerge inesorabilmente le Muse nella problematica tecnologica.
Anche poesia (dal greco poiesis) significa produrre, fare, creare e l’allusione è chiara al mondo del lavoro e della tecnica. L’arte tuttavia – così come la techne in generale – non può ridursi a puro e semplice giuoco di prestigio, a fuoco d’artificio, a virtuosismo tecnico. E’ anche questo, ovviamente, ma se togliamo al lavoro il guizzo creativo, l’intuizione e l’ispirazione che donano un senso alla vita, non può che aprirsi il baratro dell’alienazione e dell’abbrutimento coscienziale. Con tutti i danni che ne susseguono, che sono oramai sotto gli occhi di tutti e non è certo il caso di rammentare. L’uomo, l’artista in particolare, ha dentro risorse incredibili cui potersi appellare, ma deve chiamarle in causa dando fondo a tutta la carica di positività di cui dispone. Ognuno degli artisti presenti in questa mostra ha acceso una luce nel buio. Lasciamoci illuminare.
Facciamo adesso un giro tra le opere esposte, tra questi stimoli pittorici, scultorei, fotografici appartenenti alla moderna cultura visiva amorevolmente accolti negli spazi di questa splendida Chiesa. Le vetuste, solenni strutture del Tempio di Santa Maria Maddalena abbracciano questi moderni guizzi creativi in un connubio intrigante e suggestivo fra il Nuovo e l’Antico. Partiamo per il nostro viaggio.
Iniziamo da Luca Fondi con l’opera intitolata “Studio per i ricordi di domani”, un olio e foglia d’oro su tavola dall’impianto fortemente visionario. Vi si affronta il tema della rinascita, da qualunque angolazione la si voglia considerare. Una rinascita teoricamente sempre possibile e a portata di mano, ma minacciata purtroppo e vanificata dai veleni della cruda realtà esistenziale. Allegorie roventi e simboli inusitati sono il termometro di una vena fertilissima, sognante e insieme disincantata.
E veniamo ad Angelo Petraccone, con l’opera intitolata “Io e Pablo”. In questo trittico su tela calato nello sperimentalismo picassiano, l’autore rivisita temi e stilemi cari al noto avanguardista, segnati da forti aspirazioni civili e ideali. Un autore che ama dipingere a tema, su grandi tele dove affiora vigoroso il rifiuto della sopraffazione, della guerra e della violenza d’ogni tipo, principalmente di quella esercitata sulle donne, di cui sono tragicamente piene le cronache attuali.
Il contrasto tra sogno e realtà viene diversamente affrontato da Roberto Mannucci nella pittoscultura intitolata “Eclisse sul bosco bruciato”, un altorilievo pittorico a tecniche miste, polimaterico, dove i due contendenti – il sogno e la realtà, appunto – si congiungono negli avvicendamenti naturali. La Natura è un abbraccio di vita e di morte, di Eros e Thanatos misteriosamente intrecciati tra di loro. Il bosco è bruciato, ma le piante tornano a vivere mentre in cielo avviene un’eclisse di sole.
C’è poi Claudia Di Berardino, con “Promessa manifesta”, realizzata su carta arches con mallo di noce, inchiostro giapponese e cera d’api, dove uno squarcio di luce con forma vagamente antropomorfa guizza al centro dell’opera dalla fitta tenebra circostante, portando l’annuncio salvifico del Buddha, Sammasati, l’ultima parola pronunciata dall’Illuminato che sta a significare Ricorda chi sei. Un monito da tenere presente nelle varie fasi dell’esistenza, intesa come percorso di autocoscienza infinito.
E passiamo ad Andrea Cerqua con “Parole di ghisa”, un olio su tela a tecniche miste, dove simbologie complesse invitano a sentire in profondità il mondo e la vita, al di là dei blocchi linguistici e dei vari schemi mentali. Un esempio di arte metafisica che direi agli antipodi del teatro del Vuoto dechirichiano. Qui il silenzio e lo svuotamento del linguaggio costituiscono accesso verso ordini coscienziali più elevati, verso verità più profonde, verso una luce sempre più vicina enello stesso tempo lontana.
Con Marco Orlandi torniamo ai temi sociali. Contaminazioni è il titolo dell’opera realizzata a pastelli che denuncia il decadimento culturale attraverso un oggetto simbolico d’altri tempi, una moneta nazionale miseramente caduta in oblio. Sotto tiro è il chiasso trionfante di un’economia di massa che soffoca le coscienze singole, impedendo anche qui di sentire in profondità il mondo, la vita. Coltivare il silenzio è l’abbiccì per poter costruire una vita e un’economia a misura d’uomo.
E veniamo a Raffaele Mollo, con l’opera in marmo intitolata “Resistermi ancora”, scultura che non si erge maestosa nello spazio, ma piuttosto ingoia futuristicamente lo spazio, lo ingloba, plasmandolo e lasciandosene nel contempo plasmare. Un artista non contemplativo, ma d’azione, che aggredisce la pietra d’emblée, senza modelli o bozzetti preparatori, seguendo un’esigenza interiore irrefrenabile che gli fa mettere direttamente le mani in pasta nei processi creativi del Creato.
Ed è la volta di Cristoforo Russo con la sua tela a tecnica mista intitolata “Un presepe pop”. Qui prendono campo figure e temi dell’immaginario collettivo, rivisitati in chiave popolare. Ed è una delle più celebrate icone dell’arte universale, La creazione di Adamo di Michelangelo nella Cappella Sistina, a venire omaggiata in giocosa versione fanciullesca e con bonaria ironia, chiamando in causa, tra il serio ed il faceto, addirittura eroi dei fumetti e maschere del folclore nazionale.
Ed ecco Ermes Contrasti con la fotografia intitolata “Non sempre Due di picche”, spiazzante e ludica metafora del rovescio della medaglia che sussiste in ogni situazione. Le cose non sono mai come sembrano e il due di picche può trasformarsi in un poker clamoroso. Tutto è paradossale e niente è a senso unico. Dietro l’angolo c’è sempre una sorpresa, un’improvvisa e salvifica inversione di rotta che, nel bene o nel male, riporta il tutto in equilibrio, in armonia.
C’è poi un’altra fotografia, quella di Giuseppe Russo, intitolata “Emozioni in un istante” dedicato al tema dell’amicizia e della fraternità, nella fattispecie di quella sororale. Compaiono due giovani amiche, complici e confidenti da sempre, probabilmente dall’infanzia, una delle quali è in procinto di sposarsi e di cambiare stato. Un sorriso ed uno sguardo d’intesa, uno scambio di umanità tenerissimo, ricco di tutte le esperienze trascorse e pronto ad affrontare nuove sfide.
E giungiamo a Fabrizio Farina con la sua “Urban Mother” (“Madre urbana”), olio su tela che rappresenta una moderna maternità ambientata in atmosfere e contesti urbani. La donna, che si direbbe essere una ragazza madre, avvolge e protegge il bimbo con coraggio e tenera fierezza, rinnovando, in chiave contemporanea, le classiche ed arcaiche iconografie sacrali della maternità, arricchite di nuove sfumature esistenziali.
Ed eccoci a “Reali visioni” di Tina Colao, una tela a tecnica mista dove l’autrice racconta una vicenda personale che ha dell’incredibile. Ridotta alla quasi cecità da una patologia oculare gravissima, l’artista raffigura nell’opera il proprio sguardo malato, fotografando l’attimo in cui avviene un’inversione di rotta e lei decide di rinascere accendendo le luci dell’io interiore. In quell’istante l’artista passa realmente dalla morte alla vita, dalla fine all’inizio, tornando a sorridere, a vivere e a creare.
Stiamo per concludere. C’è ancora Roberto Rossi, con l’opera a tecnica mista intitolata “Profondo rosso” dall’impianto fortemente materico e informale. In questo denso grumo di polistirolo color sangue, l’artista scarica le proprie inquietudini, i propri disagi, le proprie frustrazioni. Un flusso di energia psichica che non si esprime per immagini, si riversa direttamente nell’opera con la propria ansia, con i propri tormenti, con tutto il proprio turbamento interiore.
Concludiamo con Roberta Conti che presenta un olio su tela intitolato “Un Uomo”. Compare un volto semplice e sapiente, un Cristo forse, la cui grandezza è pari alla sua umiltà. Un Cristo sorpreso tra luci e tenebre nel contrasto struggente della sua natura divina ed umana. Un Dio umanissimo che giace nel fondo dell’anima e parla sommessamente nel cuore di ognuno. Un Uomo con la U maiuscola, tormentato da dubbi fortissimi ma sostenuto da incrollabile fede.”
Franco Campegiani, filosofo, poeta, critico d’arte.